Che fine fa il TFR in caso di separazione o divorzio?
28 Settembre 2020Una delle domande più frequenti che un avvocato si sente rivolgere in caso di separazione o divorzio riguarda la fine del TFR: come viene ripartito e può vantare diritti in questo senso?
Il TFR, quella somma accantonata e liquidata dal datore di lavoro alla fine del rapporto, può assumere anche valori cospicui e, proprio per questo motivo, può riguardare i rapporti patrimoniali tra coniugi separati o divorziati.
Abbiamo deciso di parlarne con l’avv. Lorenza Zanata, avvocato del Foro di Venezia, collaboratrice dello “Studio Legale Giordano – Zanata”, membro del Dipartimento Famiglia e Minori della Fondazione “T. Bucciarelli” di Aiga, responsabile formazione Aiga Venezia, membro della Corte sportiva d’appello FIGC Veneto.
- Avvocato, sappiamo che separazione e divorzio non sono la stessa cosa: da un punto di vista giuridico, i due istituti sono molto diversi. Ci chiediamo, allora, se sia il coniuge separato che il coniuge divorziato, abbiano diritto ad ottenere una quota del TFR dell’altro coniuge.
No.
Precisiamo sin da subito che il legislatore ha espressamente previsto con l’art 12 bis della Legge 898/1970 (cd. Legge sul divorzio), introdotto con l’art 16 Legge 74/1987, il diritto al coniuge divorziato, in favore del quale sia stato disposto un assegno di divorzio, di percepire una quota del TFR dell’altro coniuge, mentre non l’ha previsto per il coniuge separato a favore del quale sia stato disposto un assegno di mantenimento.
La mancata attribuzione di quota del TFR in capo al coniuge separato è stata a lungo dibattuta in giurisprudenza, tanto che è stata sollevata questione di legittimità costituzionale [nel corso di un giudizio, una delle parti ha eccepito la possibile incostituzionalità della norma; n.d.r.].
Con l’ordinanza 463/2002 la Corte costituzionale ha dichiarato però inammissibile la questione [di costituzionalità; n.d.r.], ritenendo che l’estensione al coniuge separato della misura in oggetto comporterebbe un’intromissione nella sfera di attribuzione riservata alla discrezionalità del legislatore.
Il coniuge divorziato, titolare di assegno di divorzio ha, invece, diritto a percepire una quota del TFR.
Con questa previsione il legislatore ha valorizzato un principio di solidarietà post-coniugale che trova il proprio fondamento nel principio più ampio di solidarietà sociale riferibile all’art 2 della Costituzione, ma anche nei valori richiamati dall’art 29 della Carta circa la famiglia e il matrimonio.
Tale scelta ha avuto l’intento di perseguire l’equità e non trascurare l’apporto fornito dall’ex coniuge, spesso con attività di carattere domestico o di cura, attività che in tale prospettiva possono trovare considerazione e riconoscimento.
- Avvocato, è necessario che sia già stata emessa la sentenza di divorzio per aver diritto ad ottenere la quota del TFR?
No.
Il dato letterale dell’art 12 bis della legge sul divorzio prevede che “il coniuge nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio ha diritto, se non passato a nuove nozze e in quanto sia titolare di assegno ai sensi dell’art 5, ad una percentuale dell’indennità di fine rapporto percepita dall’altro coniuge all’atto della cessazione del rapporto di lavoro”.
La giurisprudenza più recente – in questo citiamo Cass. civ. 7239/2018 – ha chiarito che la norma va interpretata nel senso che tale diritto può sorgere anche prima della sentenza, ma dopo il deposito del ricorso per divorzio, con la possibilità di stabilire la retroattività degli effetti patrimoniali della sentenza a partire dalla data della domanda.
Dunque, il diritto a percepire a percepire una quota del TFR è attribuibile anche quando il TFR viene maturato prima della sentenza, purché successivamente all’introduzione del procedimento per divorzio.
- Avvocato, passando alla quantificazione: a quanto ammonta la quota del TFR spettante al coniuge divorziato?
La quota del TFR spettante all’ex coniuge titolare di un assegno di divorzio è pari al 40 % dell’indennità riferibile agli anni in cui il rapporto di lavoro è coinciso con il matrimonio.
Questione dibattuta è stata la seguente: qual è il momento in cui finisce il matrimonio?
La fine della convivenza o la durata legale del matrimonio?
Va computato anche il periodo nel quale i coniugi non hanno convissuto a seguito dell’intervenuta separazione, sino alla emissione della sentenza di divorzio?
Ai fini della cessazione del vincolo matrimoniale è sufficiente venga emessa sentenza sullo status, sentenza che può essere emessa molto prima rispetto a quella che definisce il giudizio.
La giurisprudenza prevalente ha ritenuto preferibile ricomprendere nel concetto di durata del matrimonio anche il periodo di separazione sino alla pronuncia del divorzio, poiché solo con il divorzio si verifica la rottura della compagine familiare mentre il periodo della separazione è per sua natura transitorio.
È stato dunque ritenuto più opportuno individuare un momento giuridicamente certo ed irreversibile, quale la durata legale del matrimonio, piuttosto che un elemento incerto quale la cessazione della convivenza.
L’indennità dovuta deve computarsi calcolando il 40% dell’indennità totale percepita alla fine del rapporto di lavoro, con riferimento agli anni in cui il lavoro ha coinciso con il matrimonio; risultato che si ottiene dividendo l’indennità percepita per il numero degli anni di durata del rapporto di lavoro, moltiplicando il risultato per il numero degli anni in cui il lavoro sia coinciso con il matrimonio, e calcolando il 40% su tale importo.
Intervista di Luca Cadamuro