Sanità

Aurora Niero, infermiera sandonatese volontaria nei reparti Covid a Bergamo e Brescia.

7 Giugno 2020

Aurora Niero, 32enne sandonatese, infermiera pediatrica partita volontaria per le città più colpite dal Coronavirus.
Vi raccontiamo la sua storia e le sue esperienze:

 

Aurora, com’è stato e com’è vivere questo periodo da infermiera?

Quello che stiamo tutti attraversando è un periodo storico molto importante, che segnerà il mondo sanitario, quanto la storia del nostro Paese e quella mondiale. Ancora non riusciamo a rendercene conto appieno, ma i nostri figli e i nostri nipoti, probabilmente, leggeranno di questo periodo nei libri di storia, al pari di tutti i grandi eventi che hanno cambiato il mondo.

 

Hai percepito tanta preoccupazione tra la gente o i pazienti?

Inizialmente sì, ho percepito tanta preoccupazione tra le persone, i familiari, gli amici dei pazienti. Il mio compito è stato anche in parte quello di rasserenare le persone, farle sentire al sicuro. Ovviamente non sottovalutando o negando la situazione, bensì cercando di aiutarli a trasformare la paura – che non è mai una cosa positiva – in sana preoccupazione, che facesse quindi utilizzare prudenza, evitando che potesse condizionare in maniera negativa la vita delle persone.

In questo momento il timore della gente è molto attenuato, e questo mi spaventa perché un po’ di prudenza in più dovrebbe esserci sempre. Invece siamo passati dalla paura, che è un atteggiamento negativo, a un senso d’indifferenza, che è altrettanto negativo.

 

Com’è maturata l’idea di partire come volontaria a Bergamo, prima, e a Brescia ora?

L’idea di partire per Bergamo non è stata una scelta maturata nel tempo, ma una decisione istintiva. In quel periodo si cercavano persone che potessero essere d’aiuto nell’emergenza, e io ne avevo i requisiti. Mi sembrava il minimo poter dare una mano come volontaria, per dare un po’ di respiro ai colleghi.

Differente è stata invece la scelta di questa partenza per Brescia con la Protezione Civile.

Le richieste le avevo già compilate con l’inizio dell’emergenza a marzo, e la Croce Rossa mi ha chiamato come volontaria ad aprile. Poi è arrivata anche la chiamata della Protezione Civile, e in 5 giorni ho dovuto scegliere se partire o no. È stata una decisione sofferta per vari motivi.

Da una parte l’emergenza stava rientrando e non c’era più bisogno di tutto questo aiuto da fuori, e dall’altra l’apertura dal lock-down mi dava la possibilità di rivedere le persone care che non vedevo da molto, come i familiari, il mio nipotino, e il mio fidanzato, che avrei potuto finalmente incontrare dopo 3 mesi di assenza. Proprio quei giorni però è arrivata la chiamata, e la scelta è stata veramente difficile.

Altro aspetto che comprensibilmente si è inserito nella decisione è quello relativo all’aver lasciato il reparto nel quale lavoro. Se è vero comunque che quando sono partita per Bergamo avevamo la parte chirurgica e pediatrica chiusa, e quindi c’era più personale a disposizione, questa volta la scelta è stata più ponderata e mi sono a lungo confrontata con la mia coordinatrice. Perché anche se la mia azienda ha l’obbligo di lasciarmi partire, in quanto si tratta di fronte a una situazione di emergenza, non me la sentivo di lasciare in difficoltà il reparto. Parlandone con la coordinatrice, quindi, sono potuta partire più serenamente, e sono contenta di averlo fatto. Sarà un’esperienza che mi permetterà sicuramente di essere arricchita a livello umano e a livello professionale.

 

Quali incarichi svolgevi a Bergamo, nel periodo più grave dell’emergenza? Quali sono stati i tuoi compiti, quali le difficoltà e l’impatto che hai avuto?

Ho lavorato come infermiera in un reparto covid al Papa Giovanni XXIII, in quello che si definisce “percorso sporco”, quindi a contatto con i pazienti infetti e con tutte le pesanti ma doverose protezioni. Alcuni pazienti, infatti, erano in isolamento da contatto e quindi, quando andavamo da loro dovevamo indossare ulteriori dispositivi di protezione, come un

secondo camice da togliere appena fuori le loro stanze.

È stato molto impegnativo dal punto di vista fisico e a fine turno arrivavamo stremati. Dovevamo gestire i pazienti in tutte le fasi: dall’igiene, alla movimentazione, all’alimentazione, oltre che alle fasi cliniche come seguire le terapie, fare i prelievi, i tamponi, controllare i parametri. L’attività è stata molto difficoltosa, anche dal punto di vista emotivo. Per quanto ti aspetti quello che ti troverai ad affrontare, non sei mai pronta a percepire la sofferenza dei pazienti che ti troverai davanti o la loro morte. Altrettanto angosciante era sentire i colleghi raccontarci delle code con le ambulanze fuori dai pronto soccorso, senza più posto per accogliere i pazienti, perché le prime ondate avevano riempito tutto.

O i racconti di quando, dal mattino fino a sera, non riuscivano a venire a recuperare i corpi dei deceduti nei reparti.

Le difficoltà sono state quindi molte. Dalla stanchezza fisica a quella psicologica nel doversi scontrare con tutto questo.

 

La differenza tra il periodo di Bergamo e quello di questi giorni a Brescia, con la Protezione Civile, è che prima eravamo in piena emergenza e in lock-down, quindi non si poteva uscire se non per andare dall’hotel all’ospedale e viceversa. Un periodo molto difficile, perché oltre ad essere lontana da familiari e amici, non avevo nemmeno la possibilità di essere nella mia casa, nell’ambiente famigliare. Passavo il tempo libero leggendo e studiando. Qui, invece, a Salò abbiamo la fortuna di essere anche liberi di scoprire la città, potendoci spostare.

Al momento sono all’interno di una RSA e il lavoro è molto diverso da quello che svolgevo a Bergamo, perché prima ci trovavamo ad affrontare l’emergenza per i pazienti. Ora si tratta di dare una mano e di dare respiro ai colleghi. L’emergenza è appunto scemata e pazienti covid positivi ce ne sono molto pochi.

La difficoltà qui, è trovarsi catapultati in un mondo diverso, con sistemi informatizzati diversi, e che quindi dobbiamo imparare ad utilizzare, cure farmacologiche differenti, avere a che fare con pazienti “non collaboranti” come quelli con sintomi di demenza e che quindi sono restii alla terapia. Considerando poi che, da sola, come infermiera ho 47 pazienti da gestire, il tutto si complica, perché ogni paziente va seguito differentemente, e il fatto che alcuni siano affetti da queste patologie aumenta le nostre difficoltà per riuscire a fare tutto quello che dobbiamo fare nelle tempistiche che servono.

Guardandoli, però, provo molta sofferenza, perché ci sono anziani che ovviamente non vedono l’ora di vedere i cari, ma ancora non possono, e non hanno neanche lo svago che potevano avere prima. E noi, con i ritmi che dobbiamo mantenere, non riusciamo nemmeno ad avere il tempo per stare un attimo con loro, per fargli sentire un po’ dell’affetto che in questo periodo non possono ricevere da altri.

 

I pazienti covid come si rapportavano con voi e voi con loro?

I pazienti covid con i quali ho avuto a che fare erano tutte persone di una certa età. Vedevano ciò che facevamo per loro. Nelle terapie intensive sono intubati o sedati, per cui non parlano ovviamente con noi. Nel momento in cui sono estubati e non più sedati sono persone che sanno essere in via di guarigione. Tutti però sanno apprezzare i sorrisi che gli rivolgono i nostri occhi.

 

Hai avuto paura, in qualche momento, per la tua salute?

Paura per la mia salute non ne ho mai avuta. C’è sempre stata molta prudenza. Ho avuto però sempre molta paura per la salute dei miei cari, però ho sempre avuto premura di evitare qualsiasi contatto sbagliato, utilizzando sempre i Dpi e facendo attenzione a ciò che facevo nei loro confronti.

 

Ora una nuova partenza, per Brescia. Come mai? Quali compiti stai portando avanti con la Protezione Civile e quanto durerà il tuo incarico?

Qui a Brescia sono appunto in una RSA. Alla Protezione Civile erano arrivate più di 12mila richieste. Dovevamo essere selezionati in 500 ma alla fine siamo stati 785. Siamo l’ultimo contingente di 83 infermieri partito. Una volta arrivati a Roma, il 3 giugno, c’hanno fatto il tampone, dopodiché il giorno seguente siamo ripartiti, dopo l’incontro con il ministro Boccia e il commissario Borrelli.

Arrivati a Rimini ci hanno smistati per le varie destinazioni: Lombardia, Piemonte, Liguria, Abruzzo, Emilia. In base alla richiesta delle regioni. Io sono stata destinata a Brescia e rimarrò qui per 28 giorni, ovvero il limite che hanno dato a tutti. Quando avremo finito il nostro incarico, prima di ripartire verso casa, ci faranno nuovamente il tampone per verificare la nostra negatività al virus e poi potremo ritornare.

 

Come è cambiata la situazione rispetto alla prima esperienza a Bergamo, quali sono i nuovi compiti e le nuove priorità?

A differenza di prima, con l’emergenza in esaurimento ora siamo inviati nel territorio, quindi RSA e ambulatori dove fare tamponi. Nella fase precedente l’emergenza era all’interno degli ospedali e per i numeri che c’erano serviva l’aiuto lì. Adesso, con la Fase 2, l’aiuto è più prioritario nelle RSA per dare respiro ai colleghi.

 

Cosa ti ha spinta a fare una esperienza di questo tipo? Ti sei sentita pronta? Le conoscenze che avevi erano adeguate a questa nuova sfida o è stato anche un apprendere sul campo?

Come infermiera mi sono sempre sentita pronta a poter dare una mano nel mio ambito sanitario. Quello a cui non ci si sente pronti sono i cambiamenti. Ogni settore è molto diverso, perché a differenza dei medici non abbiamo la possibilità di specializzarci, quindi dobbiamo essere pronti all’ambito che affrontiamo, da quello chirurgico a quello dell’emergenza.

Fortunatamente ho fatto anche un master in area critica nei miei studi e questo mi ha aiutata molto nella gestione dell’emergenza e a saper affrontare meglio questa situazione. Certo è che non si è mai pronti appieno, proprio perché ogni situazione è diversa, con protocolli, farmaci, procedure, diversi. Facciamo però del nostro meglio per adattarci in fretta.

 

Pensi che in qualche modo la gente abbia imparato a conoscere in maniera diversa il ruolo di voi infermieri?

Penso che nel momento in cui avremmo potuto spiegare alle persone cosa stiamo realmente facendo oggi, perché abbiamo avuto effettivamente un “faro” puntato addosso, non abbiamo potuto farlo perché eravamo in piena emergenza ed impegnati ad affrontarla. Le persone si sono effettivamente rese conto dell’importanza del lavoro che facciamo. Hanno aperto “mezzo occhio”, ma speriamo di non essere importanti solo fino a quando c’è l’emergenza. Di fatto gestiamo tante emergenze, non solo quella del coronavirus. Le infezioni le abbiamo tutti i giorni, la sofferenza la vediamo tutti i giorni, la morte la vediamo tutti i giorni.

La gente pensa che siamo una professione che sta sotto al medico, facciamo ciò che ci dice il medico e siamo a contatto col malato. La realtà è che noi abbiamo un percorso di studi e dei master. Non lavoriamo solo a livello assistenziale pratico, ma anche intellettuale, pianificando le prestazioni infermieristiche.

Non è cambiato quindi molto il ruolo dell’infermiere nel modo in cui viene percepito dalla gente. Ma sarebbe bello che capisca realmente la figura professionale dell’infermiere affiancata alle altre figure professionali.

 

Cosa ti rimarrà di queste esperienze?

Sicuramente sto ricevendo più di quanto ho potuto dare, dal punto di vista emotivo. Quelle che ci troviamo a vivere sono situazioni che ci insegnano quanto la vita sia unica e vada vissuta e apprezzata giorno per giorno sotto ogni minimo aspetto, compreso il respirare. Un aspetto così banale, al quale non facciamo nemmeno caso, ma al quale dobbiamo la vita. Dobbiamo saper apprezzare ogni respiro che facciamo.

Al di là di questo, ho trovato un team che nonostante la stanchezza, nonostante ciò che ha visto, nonostante ciò che ha passato, era molto unito, sempre sorridente. Anche l’accoglienza che ho ricevuto, quindi, sarà una cosa molto bella che mi rimarrà nel cuore.